“Un’antica leggenda celtica narra la storia di Canoclach Mhor, una giovane dea, che aveva offerto se stessa e la propria bellezza all’uomo, affinché questi apprendesse l’amore.
Invano: l’uomo preferì a lei il potere e il mezzo per conquistarlo, ossia la guerra. Inutilmente la dea cercò di spiegare all’uomo che quella del potere non era la via giusta per la felicità. L’uomo la respinse ed ella, in lacrime, se ne uscì da un mondo che non aveva accettato l’amore.
Andò errando in preda al suo dolore e finalmente giunse alla riva del mare. Qui diede sfogo a tutto il suo tormento, che solo le onde potevano udire. Commosse, queste iniziarono col loro sussurrio a suggerire il sonno alla dea finché ella, tanto provata dal lungo pianto, non reclinò il capo sulla sabbia e, cullata da questo mormorio, si abbandonò ai suoi sogni. Già il sole aveva discretamente ceduto il palco del cielo alla luna, il cui canto si rifrangeva nei mille luccichii di stelle e tale canto era ora vicino, ora lontano, ora acuto, ora grave ma sempre di sconvolgente bellezza. Il vento poi, passando tra le onde, acuiva il tono di questa voce e ora lo rilassava in un registro più grave, ora lo rendeva sempre più nitido e cristallino, tanto che alla dea, ridestata da questo concerto marino, parve voce di conforto.
Il registro grave leniva il suo animo tormentato e afflitto, mentre quello acuto liberava in lei un dolce sorriso. Confortata da quest’ammaliante suono, la dea capì che doveva lasciare che l’uomo seguisse la propria via e che doveva esser pronta ad accoglierlo, allorché, deluso dagli stessi suoi vani tentativi, fosse ritornato da lei a cercare conforto.
Stava per andarsene, quando un ultimo saluto del vento portò le note del canto del mare contro la carcassa di una balena che, poco lontano, giaceva abbandonata dalla marea. Le ossa della balena, vibrando alla sollecitazione del vento, magicamente riproducevano l’esatto suono che la dea aveva udito nel suo tormento. Ella allora si avvicinò a quei miseri resti e disse: – Mia buona balena, tu che hai saputo ricordare al mio cuore il canto della luna, delle onde e del vento udito questa notte, non sei morta invano. Io, infatti, forgerò da te uno strumento che darà gloria alle tue ossa e che conforterà gli uomini nel loro cammino verso la felicità. –
Quindi, tirandole leggermente la mascella, la modellò; raccogliendone i nervi ed i tendini li tese, sì che producessero suoni diversi, acuti o gravi, secondo la lunghezza. In breve tempo tutte le corde avevano ricevuto il proprio suono ed ella, dopo averle saggiate tutte scoprendo la voce multiforme delle loro diverse altezze, riproduceva per loro tramite il dolce suono delle onde. Appoggiando poi al suo petto lo strumento così creato, gli trasmetteva le vibrazioni della sua anima, riempiendolo delle soavi armonie celesti.
Al mattino, lo strumento era qualcosa di vivo e vibrante e cantò la voce della dea e il suo canto d’amore per l’uomo. La dea chiamo lo strumento “Clarsach” che vuol dire “voce cristallina del cuore“.”
Tratto da “L’arpa di Lug” di Massimo Celegato
Dunque è per questo motivo che il suono dell’arpa ci arriva sempre come un tocco magico, misterioso, che ci culla e rasserena?
Se ci pensate, raramente il suono dell’arpa riesce a innervosirci o disturbarci. Lo dobbiamo quindi alla dea dell’amore? 😉
Forse non crediamo a questa leggenda ma una cosa è certa: l’arpa ha effetti positivi sul nostro stato d’animo. Personalmente penso che il motivo risieda nella sua grande cassa di risonanza che è appoggiata al corpo di chi la suona e che vibra nel corpo del musicista in primis e in quello degli ascoltatori poi.
Mi è capitato molto spesso di essere nervosa, triste o comunque di malumore e iniziare a suonare. E sempre, alla fine del brano o alla fine del pomeriggio di studio, il mio umore era cambiato. Musicoterapia, la chiamavo. Non sapevo ancora cosa significasse la risonanza corporea, l’effetto che i suoni hanno sul nostro corpo e di conseguenza sulle nostre emozioni, eppure mi rendevo conto che qualcosa cambiava.
Così succede a tutti i nuovi piccoli arpisti che si avvicinano a questo bellissimo strumento.
I bambini in particolare, sono molto più attenti, dicono che l’arpa gli “fa il solletico” alla pelle, oppure che “questi suoni bassi mi arrivano fino alla pancia!”. E ridono, e io rido con loro perché ogni volta mi stupisco della loro capacità di ascolto, della libertà che hanno nel corpo.
Il mio difficile compito è quello di non cambiare questo loro stato ma aiutarli a svilupparlo. Per loro, perché possano godersi i suoni e tutte le future musiche che riusciranno a interpretare e inventare, senza il peso del giudizio degli altri, senza il “dover riuscire bene”. Solo suonando.
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